Sahara occidentale, 2 maggio 2025 - Nel Sahara Occidentale occupato, il lavoro non è più solo una questione di sfruttamento: è un'arma di ingegneria demografica. La politica del Marocco non punta all’integrazione della popolazione saharawi nel tessuto economico, ma alla sua sostituzione sistematica. La marginalizzazione della manodopera indigena è parte integrante di un progetto coloniale che mira a cancellare l’identità, la presenza e l’autonomia del popolo saharawi.
A distanza di cinquant’anni dall’inizio dell’occupazione militare marocchina del Sahara Occidentale, la realtà nei territori controllati da Rabat è quella di una sistematica esclusione economica. I Saharawi, pur essendo cittadini del territorio, restano ai margini: affrontano tassi di disoccupazione elevatissimi, sono esclusi dagli impieghi pubblici e relegati a posizioni precarie, mentre i coloni marocchini — incentivati da salari più alti, agevolazioni fiscali e alloggi — occupano i settori chiave dell’economia e della pubblica amministrazione.
Questa dinamica non è casuale. Serve a consolidare la presenza coloniale e a “normalizzare” l’occupazione, mentre il Sahara Occidentale diventa una valvola di sfogo per l’eccesso di forza lavoro nel Regno marocchino. I territori occupati si trasformano così in un laboratorio di gestione interna della disoccupazione e di affermazione politica sul piano internazionale.
Il modello marocchino, dunque, va oltre lo sfruttamento della forza lavoro: è un meccanismo deliberato di sostituzione. Un’operazione che ricorda da vicino i regimi coloniali insediativi di Australia, Canada e Stati Uniti, dove l’obiettivo non era l'integrazione delle popolazioni indigene, ma la loro rimozione — fisica, culturale ed economica — per garantire il dominio totale sul territorio.
A differenza di altri contesti coloniali, come l’apartheid sudafricano o l’occupazione israeliana della Palestina, dove la manodopera indigena resta funzionale all’economia dominante, nel Sahara Occidentale il lavoro saharawi è reso invisibile e irrilevante. Non per incapacità, ma per precisa volontà politica.
A questa emarginazione economica si accompagna una repressione politica brutale. Ogni forma di organizzazione sindacale indipendente è vietata. Le proteste pacifiche dei disoccupati saharawi o degli ex lavoratori licenziati dalla compagnia statale di fosfati OCP sono represse con violenza, arresti arbitrari e sorveglianza costante. Chi sceglie di lavorare per strutture collaborazioniste, viene spesso isolato dalla propria comunità e stigmatizzato.
Nel frattempo, nei campi profughi saharawi in Algeria, sotto l’amministrazione della Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD), prende forma un modello diverso, fondato sulla solidarietà, l’autogestione e la resilienza. Pur in assenza di sovranità economica e senza accesso alle risorse naturali — ancora nelle mani del Marocco — la RASD ha costruito sistemi educativi, sanitari e amministrativi funzionanti. Il muro militare marocchino non è solo una barriera fisica: è una linea di confine che separa i Saharawi dalle loro terre, dalle loro ricchezze e dalla possibilità di decidere sul proprio futuro.
Anche nella diaspora, i lavoratori saharawi affrontano precarietà, discriminazione e instabilità, ma restano parte attiva della resistenza: attraverso rimesse economiche, attivismo politico e reti di solidarietà internazionale.
Per tutte queste ragioni, il problema del lavoro saharawi non può essere letto con le lenti dello sviluppo tradizionale o delle politiche occupazionali. Non si tratta di creare posti di lavoro in un contesto coloniale: si tratta di riconoscere e abbattere le strutture che impediscono a un popolo di esistere.
La questione è profondamente politica e richiede una risposta globale. I sindacati internazionali, le istituzioni accademiche, le organizzazioni multilaterali e i movimenti sociali devono riconoscere che ciò che accade nel Sahara Occidentale è colonialismo in pieno XXI secolo. Una contraddizione che coinvolge anche l’Unione Africana, la quale accetta il Marocco come Stato membro mentre quest’ultimo continua a occupare illegalmente un altro Stato membro: la RASD.
La solidarietà con i lavoratori saharawi non può essere episodica o puramente umanitaria. Deve trasformarsi in un impegno politico concreto contro l’ingiustizia sistemica. Il caso saharawi è un banco di prova: rivela fino a che punto la comunità internazionale è davvero disposta a lottare per la giustizia, l’autodeterminazione e la fine del colonialismo.
