Sahara occidentale, 10 marzo 2025 - Nel cuore del deserto saharawi, una minaccia invisibile incombe: circa dieci milioni di mine antiuomo e anticarro, reliquie di un conflitto dimenticato, giacciono nascoste sotto la sabbia, lungo il famigerato "Muro della Vergogna". Questa barriera, eretta dal Marocco negli anni '80, non solo divide il territorio del Sahara Occidentale, ma continua a mietere vittime innocenti.
Il quotidiano francese l'Humanité ha portato alla luce questa realtà attraverso il toccante ritratto di Zuenuha Cheikh Ali, una giovane donna saharawi che ha scelto di dedicare la sua vita allo sminamento. "Ciò di cui parla Zuenuha con calma olimpica è tuttavia spaventoso", scrive il giornale, "Sono mine. Antiuomo o anticarro, dieci milioni di mine sparse nella sabbia del deserto del Sahara, lungo il famoso "muro di sabbia", che si estende per 2.700 km, costruito dal Marocco negli anni '80 per dividere il popolo saharawi e impedirne il ritorno nella sua terra, il Sahara Occidentale".
Le cifre sono allarmanti: secondo Taleb Haider, direttore dell'Ufficio Saharawi per il coordinamento e l'azione contro le mine, si stima la presenza di 72 tipi di mine, provenienti da 14 paesi diversi. "Il terzo numero più grande al mondo, dopo Laos e Afghanistan", sottolinea l'Humanité.
L'Ufficio Saharawi, in collaborazione con l'ONU e le ONG, svolge un ruolo cruciale nella formazione dei volontari e nell'organizzazione di missioni di sminamento, attività rese ancora più pericolose dalla ripresa del conflitto armato tra il Fronte Polisario e il Marocco nel 2020. L'utilizzo di droni armati, forniti anche da Israele, ha causato la morte di almeno 127 civili saharawi nei territori liberati.
La crescente pericolosità delle missioni ha portato diverse ONG a sospendere le loro attività, ma il coraggio di Zuenuha e di altri volontari non vacilla. "Oggi, con la guerra, è molto pericoloso. Ma, non appena ci sarà una campagna, sarò pronta. Nel 2018, quando me ne sono andata, avevo un bambino di pochi mesi. Quando me ne sono andata, non sapevo se sarei tornata", racconta Zuenuha.
Il suo impegno è un atto di "dovere nazionale", ma anche un tributo alla storia della sua famiglia. Come circa 6.000 saharawi, suo padre è stato vittima delle mine, ferito nel 1985 e costretto all'amputazione di un arto. "Ecco perché ho scelto questo compito", afferma Zuenuha.
La storia di Zuenuha Cheikh Ali è un simbolo della resilienza del popolo saharawi e della sua determinazione a liberare la propria terra da un'eredità di morte e distruzione.